L'eco: racconto giallo. Parte III

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[... - seconda parte - ...]
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Dopo uno di quei dopo che non si misurano, il suono del campanello la sveglia, la riporta al freddo del pavimento bagnato,
sui tagli.

Gli istinti della ragazza sono per uno stato di incoscienza serena che le dona un’altra pausa.
Come quando la testa scivola dal sonno, lei torna subito via. Perde coscienza per autoregolazione.

Il campanello, di nuovo, la riporta indietro. Per pochi attimi.
Neanche abbastanza perché faccia in tempo a chiedersi come mai stia gemendo.

Vive a momenti di consapevolezza sbiadita in cui,
a sguazzare le mani nel sangue sul bianco della doccia, le sembra
quella volta in cui giocava
alle impronte con la pittura a dita su fogli enormi.

Ne viene fuori un sorriso da bimba, nonostante tutto.
Ma gli occhi aperti le durano poco
più del cigalino.
Come in un film scritto su un dvd rigato, il mondo le salta
un istante prima della cognizione del dolore.

Poi il trillo del telefono, che non smette.
E la suoneria del cellulare, fuori luogo in ogni situazione.
Più si sommano i suoni, più si prolungano i momenti svegli di lei, più realizza le fitte, più le aumenta la speranza di continuare a riposare
sempre.

Si abbandona, ad intermittenza, ad un sonno nero con il terrore dei suoni forti.
Come se sonnecchiasse accanto ad una televisione sintonizzata male che, ogni tanto, la scuote.

Di nuovo campanello-squillo-campanello-suoneria: intervallati dal buio.

E botte sulla porta dell’appartamento.

Suoneria, campanello, trillo. Ancora. E pugni sul legno, sempre più violenti. In crescendo.

Pochi secondi per la rincorsa e il fracasso del portone sfondato dall’esterno. Alla fine.

Entra dal pianerottolo un ragazzo snello, con la faccia tutta rossa di fiato grosso,
corre in cerca di lei.
- ‘Eliii! Tutto bene?
Urla.

La trova presto,
una ragazza semimorta, rannicchiata nuda che disegna a terra con le mani sporche di sangue.

Il ragazzo magro nota un eco di risata sulle labbra di lei.
Lei ride come se fosse in grado di nascondere i supplizi,
anche a se stessa.
Un sorriso dolorante,

come un pierrot.








It is always the imagination
which gains the victory over the will,
without any exception.

- Emile Coué.

L'eco: racconto giallo. Parte II

[...  - prima parte -  ...]

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L’uomo-torre finisce di lavare il bagno, si asciuga. Estrae una busta vuota di plastica dal tascapane, la apre e la riempie con l’asciugamano e le spugne sporche.

La donna con gli occhiali lancia verso di lui il cencio insanguinato con il quale stava pulendo il coltello e rinfodera la lama.
Lui si china a raccogliere lo straccio senza una parola e lo aggiunge ai panni sporchi. Sigilla a nodo stretto la busta e la ripone.
Lei, intanto, si sciacqua le mani, non si cura del sangue che sparge sul piatto del lavandino appena lucidato. Appena poi, si allontana.
Lui strofina via dalla ceramica bianca le nuove strisciate,
con le dita.

Poi, senza asciugarsele, punta le manone alla gola della ragazza che piange.

Sicuro
come se mancasse una pennellata per completare il mestiere.

La donna con i capelli neri si intromette con una battuta secca di voce storta:
   - Lascia pure che soffra.
E abbassa le braccia di lui con un gesto del pugnale.
Lui le risponde con uno sguardo incredulo e rabbioso. Ma dopo, subito, si corregge:
china il capo:
   - Hai ragione.
Remissivo per qualche istante di occhi chiusi e schiena ingobbita.
   - Mi dispiace solo che non riuscirà a lamentarsi ancora per molto.
Aggiunge per recuperare la stazza.

Tra i due succede un reciproco sorriso di intesa.

Lui chiude la doccia
eppure non ottiene il silenzio desiderato per l'ultimo sguardo compiaciuto.
Allora escono via.

Un risolino all'unisono, prima di lasciare un'altra bambina a pancia all'aria,
a contare
i secondi
che passano
tra un respiro
e la forza
di farne un
altro,

finché la luce dei neon le uscirà dalla capacità percettiva.
Fino a quando il tempo le perderà di senso.

L'eco: racconto giallo. Parte I

La luce esterna non filtra dalla tapparella abbassata, eppure il neon bianco appeso a parete poco sopra il portasciugamani illumina a giorno. La stanza è molto grande
e l’effetto di ombre lunghe lunghe sulle piastrelle chiare del bagno è tanto garantito quanto ovvio.


L’eco del pianto di lei non distrae il gigante dal suo lavoro: a colpi di stracci lucida le pareti mentre gocciolano sangue. Lento come chi è costretto, come chi cancella un quadro 'che sa sarebbe di troppo:
va piano
per gustarne i particolari
ancora
un'ultima volta.
Altro che come chi deve: è minuzioso,
per abitudine.
Si direbbe un omone sconsolato. E i sospiri non tardano ad arrivare dal primo risciacquo di pezza in poi.

Lei, sparsa a terra nel piano doccia, rantola e poco altro.
Non bada al piacere del contrasto tra i colori che offre la scena:
il rosso sbiadito del sangue suo che scorre via con l’acqua,
risalta sul bianco lucido del marmo che fa da fondo. Lo scroscio della doccia spalancata aiuta ad incupire e i lamenti di lei, anche:
a mo’di pioggia forte e tuoni lontani.

La donna con gli occhiali non smette di passare su un cencio la lama del pugnale. Un gesto distratto che porta avanti per abitudine. (sovrappensiero). Ha negli occhi altri entusiasmi: sorride al ricordo delle smanie che sentiva mentre
era concentrata a pianificare il lavoro che ha portato a termine ora, gusta la meticolosità e la naturalezza con la quale ha eseguito il suo piano. Si compiace del momento, come un regista mentre guarda ancora quella sequenza che girò
in un baleno di grazia particolare.